“L’incontro per me è su tutti i fronti: umano, creativo, viscerale”.
I Taccuini 1922 1939 a cura di Pina Napolitano custodiscono una delle voci poetiche russe più importanti del secolo scorso. Marina Cvetaeva si affida alla scrittura, a quell’estro che le ha consentito di sopravvivere nonostante non vivesse solo di salotti. La poetessa cucina, si procura dei soldi, legna e carbone: “e poi un uomo non può fare lavori femminili è bruttissimo da vedere (per le donne)”.
Viene emarginata poco alla volta ma appena può scrive, deve scongiurare la solitudine: “tutto quello di cui parlo è per me, io non faccio che incassare il colpo. Oppure: un colpo diretto al mondo mi ha raggiunta al petto”.
Le case editrici chiudono, si arrangia come può e persevera nella sua intransigenza. In uno stato totale di abbandono ha inizio la sua corrispondenza con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, un’amicizia che non si concretizzerà mai in un incontro. A causa della guerra civile si troverà separata dal marito, sola, completamente sola in una Mosca afflitta da una terribile carestia.
Tra il 1922 e il 1925 riuscirà a ricongiungersi con il marito Efron ma il peggio dovrà ancora venire. Il marito collaboratore della GPU diventerà un ricercato e sarà costretto a nascondersi in Spagna. Con la deportazione della figlia e l’uccisione del marito deciderà di mettere fine alla sua esistenza il 31 agosto del 1941.
Il viaggio come perpetuo peregrinare è uno dei leitmotiv dei Taccuini della Cvetaeva: “quando vado via da una città, mi sembra che questa non esiste più, smette di esistere”. Marina si consacra alla scrittura, ai suoi pensieri frammentati e contraddittori. Deve solo esistere e resistere. Porta avanti il canto dell’emarginazione. Berlino, Boemia, Parigi non fanno alcuna differenza. Si protegge con la parola: “scrivo in fretta, con passione. Il gesto con cui l’ammiraglio Kolcak restituisce al mare l’arma d’oro”.